Tag Archives: pizzahut

espresso : “giornate” = Italia : business

No, non è un’equazione! Comunque la mettiate.

Cosa significa? Presto detto, ma prima una giusta e breve premessa, ovvero: “il prossimo 12 aprile, si “torna” a celebrare l’Espresso Italiano Day, la giornata dedicata al nostro caffè”. Così recita il comunicato stampa pubblicato dall’Ansa che riprende la notizia dell’Istituto Nazionale Espresso Italiano.

Analizziamo assieme la news: la prima cosa che mi salta all’occhio è che si “torna” a festeggiare, quindi vuol dire che si è già festeggiato almeno una volta, ovvero, si è già fatto esperienza. Ma allora perchè si ripetono gli errori? La seconda cosa che noto è la confusione tra lingua italiana ed inglese. Se si vuole festeggiare un prodotto ed una tipicità italiana, perchè questa “giornata” deve diventare “day”? Perchè dedicarla al nostro “caffè”, che non è nostro, infatti non lo coltiviamo ma lo trasformiamo solamente; e perchè quindi chiamarlo caffè, quando si chiama espresso?!?!

d9bd77f9181e907cf4a1947ef829eeceMi domando: se si festeggia l’espresso, bevanda realizzata dal o con il caffè (chi ne sa di più mi corregga pure), perchè si continuano a confondere i due termini? Perchè in Italia, patria dell’espresso, continuiamo a chiamarlo caffè?

Ma avete notato la foto pubblicata dall’Ansa? Nulla da dire a loro, non sono del mestiere, ma se fossi dell’Istituto Nazionale Espresso Italiano o un barista professionista, mi indignerei. Secondo voi quello è un espresso? A me sembra più che alla barista gli si sia addormentato il braccio o forse è colpa del fotografo che ha chiesto tempo per mettere a fuoco? Mah!

Povero espresso!

Torniamo alla non equazione. Cosa vuol dire? Significa che mentre in Italia si perde tempo a far le “giornate” – vedi anche la giornata europea del gelato – all’estero si pensa a fare business.

Traduco: noi creativi italiani, ci perdiamo in chiacchiere e progetti macchinosi senza fine e senza esser capaci di fare rete (che sia Franchising o semplice ATI), mentre all’estero si concretizza molto e subito. Se l’esperienza insegna, ci hanno già sottratto l’identificazione del caffè (vedi Starbucks e grazie a illy per quanto fa), la pizza (vedi Pizza Hut, a breve anche in Italia), la pasta (vedi Vapiano, La Tagliatella, ecc) e probabilmente a breve anche il gelato, visto che le uniche vere “reti” italiane si sviluppano solamente all’estero e chi sta approcciando il settore lo fa più per disperazione (leggi disoccupazione) che per vocazione o vero spirito imprenditoriale.

Una recente ed accesissima discussione su facebook, con amici e colleghi professionisti del settore, proprio su questo tema, mi ha fatto ribollire il sangue verso il pressapochismo italiano nei confronti di noi stessi. Ci si preoccupa delle giornate, di fare un prodotto DOP piuttosto che DOC ma quando c’è da sviluppare un business, esempio un progetto di Franchising, che tutelerebbe a priori molto di più, ci si perde in “giornate” fine a se stesse, cavilli burocratici, organizzativi, di invidia verso gli altri ed in domande fuori luogo come quelle dei torrefattori, che davanti ad un progetto imprenditoriale per lo sviluppo di una rete di caffetterie, ancora si domandano: “ma quanti chili di caffè vendiamo?”. Forse, più che le giornate per diffondere la cultura del caffè o di altri prodotti presso i consumatori finali, bisognerebbe fare più formazione imprenditoriale, soprattutto in ottica di internazionalizzazione.

Vorrei infine chiedere al Dott. Zecchini, presidente dell’Istituto Nazionale Espresso Italiano cosa intende, parlando di espresso, quando afferma che: “la cultura italiana del caffé è basata sulle differenze regionali”. Ma l’espresso non è uno solo, unico ed inimitabile? Le differenze regionali non si riferiscono forse a declinazioni della stessa bevanda che viene miscelata con altre, per lo più alcooliche? Non è forse vero che anche Lavazza ha realizzato delle “ricette regionali” ispirandosi a cinque tipicità italiane? Ovvero 5 declinazioni regionali dell’espresso?! E poi, qual’è il criterio con cui un esercizio pubblico di dovrebbe o potrebbe  registrarsi per aderire a questa iniziativa? Chi controlla la qualità dell’espresso servito?

Social responsibility, food and Government: the responsibility deal

The responsibility deal signed by the UK governement, backed by 170 companies such as Tesco, Unilever, Sainsbury’s, Carlsberg and Mars and Diageo, is going to rise a lot of controversy for a long time.

A key pledge outlined in the deal is the development of a new sponsorship code on responsible drinking while McDonald’s, Pizza Hut and KFC have agreed to place calories on their menus from September this year.

Other pledges include:
– Reducing salt in food so people eat 1g less per day by the end of 2012
– Removal of artificial trans-fats by the end of the year
– Rolling out Change4Life branding to 1,000 convenience stores

Achieving clear unit labelling on more than 80% of alcohol by 2013 is also pledged but this was a commitment made last year by drinks brands under work initiated by the last government.

Health secretary Andrew Lansley said: ‘Public health is everyone’s responsibility and there is a role for all of us, working in partnership, to tackle these challenges.’ He claimed that regulation is ‘costly and is often only determined at an EU-wide level anyway’.

ISBA’s director of public affairs Ian Twinn also adds “It has also been inclusive – businesses have volunteered to reinforce public health through their product development and marketing and health pressure groups have pledged to contribute through their campaigning activities.

The responsibility deal seems a great step toward the introduction of a more socially responsible fast-food industry, but not all the companies do have the same advise. Cafe Rouge, Bella Italia and Strada are expected to follow Subway and PizzaExpress by not signing up to the government’s health initiative. Subway, which already provides calorie counts on in-store posters, said the scheme was unsuitable for its stores. It is conducting a trial intended to establish the most effective way of displaying the information.

Meanwhile, a PizzaExpress source argued that displaying calorie levels is not consumer-friendly and clutters its menus.

One factor that will no doubt deter businesses, particularly smaller inde-pendents, is the costs involved. London restaurant chain The Real Greek says that, on average, it costs about £100 to test and certify each dish.

Being one of the first to make a move has its risks, not least the fear of being criticized in the press for selling high-calorie-content food. On the other side, being part of a movement that gives consumers greater transparency can deliver positive press coverage.

Toby Southgate, managing director of branding agency The Brand Union, believes the risks are worth taking. ‘Those brands that adopt early could win out, provided they handle the move carefully,’ he says.

Southgate cites McDonald’s, which has made efforts to ‘re-educate’ its con-sumers about healthier eating, arguing that disclosing calories on its menu board could provide incentive to consumption. (Source: BrandRepublic)